Può la memoria esser custodita e trasmessa come materia viva?
Nonostante l’apparente consapevolezza dell’importanza di conservare la memoria storica per
evitare il riperpetrarsi di drammatici episodi di carattere politico o sociale, ci troviamo ad assistere
impotenti alla proiezione della medesima pellicola e della medesima trama, seppur con interpreti
diversi.
I frammenti della memoria sono materia viva, quasi biologica. Vanno alimentati e nutriti,
accettandone il carattere mutevole ed il continuo bisogno di riplasmarsi all’interno della mente di
ciascuno. Considerarli cimeli immobili e compiuti, al contrario, significa privarli del loro significato
più profondo, come fossero frutti esposti al sole d’agosto sino a perdere ogni traccia della propria
linfa vitale.
La domanda che apre questo testo rappresenta il nucleo del progetto “Does water have a space in
water?” che attinge alla memoria individuale per cogliere l’essenza più profonda di un linguaggio
universale, restituendone frammenti capaci di suscitare emozione (dal greco e-fuori moveo-agito,
ovvero la manifestazione diretta del proprio universo interno che viene trasmessa all’esterno,
divenendo di dominio comune).
In Scolpire il Tempo, Andrej Tarkovskij dichiara di attingere alla propria memoria d’infanzia,
profonda fonte d’ispirazione, per generare un immaginario evocativo di grande forza espressiva.
Tuttavia, se i suoi ricordi fossero riprodotti fedelmente di fronte alla camera da presa, non
potrebbero generare le medesime emozioni poiché lontani dallo spirito e dal contesto nel quale
sono stati vissuti. Pertanto, tali frammenti, ricondotti a suggestioni quasi ancestrali e universali,
vengono magistralmente riplasmati dal regista sino a divenire nuclei espressivi del
racconto filmico.
Ognuno di noi possiede numerose memorie fotografiche o filmiche del proprio passato. Le
affidiamo spesso ad un oblio privato, relegandole unicamente al ruolo di reliquie del nostro vissuto.
Ma se provassimo ad andare oltre la location o i tratti somatici delle persone ritratte e ci
concentrassimo sul bagaglio espressivo ed emotivo che questi frames hanno la capacità di
suscitare, ci renderemmo immediatamente conto di come questo grande archivio possieda una
lettura universale, sebbene sia animato e composto da piccoli contributi intimi apparentemente
insignificanti. I miei genitori hanno lasciato l’Ucraina per trasferirsi in Italia alla fine degli anni ’90.
La vita all’interno di un contesto completamente nuovo è stata impressa per decenni attraverso la
lente di una videocamera. Scene di vita in cui i sacrifici del quotidiano si alternano ad ogni piccolo
traguardo o alla scoperta di qualcosa di inaspettato. Tutto è scandito su pellicola, con l’intento
inconsapevole di dare dignità alla memoria di una famiglia.
I miei genitori avevano il bisogno urgente di filmare, senza mai riguardare il materiale racchiuso in
quelle piccole videocassette, che in fondo contengono un vissuto come tanti, un vissuto di esseri
umani e relazioni, di luoghi e di esperienze, un vissuto di migrazione e speranza.
Non ho bisogno di riguardare questo archivio per ricordare ogni scena che vi è impressa, poiché
nella mia infanzia queste immagini hanno colmato i vuoti nella distanza fisica con i miei genitori e
rinfrancato il debole stelo della mia identità.
Il lavoro parte quindi dalla ricchezza effimera di questo archivio privato per costruire un ponte
filmico capace di comunicare universalmente e scrollarsi dalla polvere del tempo.
Attraverso la lettura di testi come “Materia e Memoria” di Bergson e “La poetica dello spazio” di
Bachelard ho compreso che il corpo e la mente non ricordano il tempo e la sua durata, bensì solo
lo spazio. Perché noi siamo fatti da immagini.
Attraverso simbolismi, gesti rituali e azioni ripetute, vorrei condurre una riflessione sullo spazio che
condensi la relazione tra interiorità ed esteriorità, corpo e mente, spazio pubblico e privato, campo
filmico e fuori campo, intimità e condivisione, solitudine e appartenenza.
Attraverso la fotografia e la video performance, filmata come all’interno di un rito con la stessa
videocamera che ha dato vita all’archivio famigliare, desidero indagare e rappresentare gli
elementi catalizzatori della memoria, costruendone un nuovo racconto capace di penetrare oltre i
muri eretti dalle distanze spaziali e temporali.
In fondo, come scriveva Bachelard, “lo spazio è un corpus di immagini che forniscono all’uomo
illusioni di stabilità” e la mia famiglia cercava inconsapevolmente questo senso di adesione solida
ad una nuova realtà, registrando frame by frame l’ambizione di costruire per sé un nuovo spazio
vitale e legittimare con esso un nuovo volto della propria identità.